Omelia sul Vangelo
della 30ª Domenica del Tempo Ordinario - Anno C
27 Ottobre 2013
Quello che sei, sei
Al mondo puoi anche sembrare bello o passabile. Ma davanti a Dio quello che sei, sei, senza trucchi: un poveraccio. Figlio, ma poveraccio. Allora quanto sei ridicolo se disprezzi un tuo fratello nelle stesse condizioni? Tu sei come lui e lui come te.
Non dimentichiamo che questo è il motivo dichiarato della parabola: Gesù la dice per coloro che “disprezzavano gli altri”. Quello che incuriosisce e irrita il Signore e lo muove a fare lezione è la tentazione del disprezzo che ha una radice indiscutibile: sentirsi giusti. Questo è il punto: sentirsi giusti, che è la farsa di chi invece è peccatore. Come dichiararsi a sinistra quando si è a destra o svegli mentre si dorme. Quello che sei, sei.
Negli anni del catechismo -non saprei perché- ci veniva instillata una naturale antipatia verso il fariseo, con tanto di pezze d’appoggio: guardate come si sente sicuro, si erige, si vanta; sì, ha le carte in regola, ma giudica un poveraccio. Che schifo...
E ricordo che si esaltava il pubblicano il quale, nonostante la sua situazione di peccato, era più gradevole presentandosi per quello che era, senza fingere.
Mi ci sono voluti molti anni, tante esperienze, una infinità di errori, sia personali che altrui, per arrivare a capire un pezzetto in più di questa splendida parabola del Signore Gesù. E questo mi pare giusto chiedere ad ogni pagina del Vangelo: Signore aprimi a quel passo in più che è necessario per capirti. Non la folgorazione di chi crede che ha colto tutto, ma l’umile certezza di aver captato un grado di luce in più.
In questo testo non è la preghiera il tema, ma la vita. E la preghiera che ne è il riflesso, nel senso che lì emerge tutto, perchè si tratta di relazione e nella relazione o si cerca l’Altro o si afferma se stessi. O si va ad un incontro o ci si guarda allo specchio. Tristemente molti, mentre stavano male, avranno fatto l’esperienza pacchiana di gente che viene in visita e parla solo di sé. Perché è l’unica cosa che vedono.
Il problema del fariseo
Paradossalmente mi commuove di più il fariseo perché finisce male: il Vangelo dice che tornò a casa senza essere giustificato. Una espressione meravigliosa, anche se un po’ difficile da capire. La Bibbia ci annuncia un uomo che non è in linea, non è a posto, per colpa del peccato. Non sta nel giusto e va riabilitato. A riabilitarlo è lo sguardo amoroso di Dio che la Scrittura chiama misericordia. Ecco quest’uomo non può essere ‘giustificato’ perché ritiene di esserelo già e non ha bisogno di un giustificatore.
Questo è il problema del fariseo, e nostro. Finire male. Non trovare quello sguardo.
Una lettura superficiale non coglie la verità di questo testo: quel fariseo era davvero una gran brava persona e il pubblicano un peccatore consistente. Se si cadeva in mano a un pubblicano, si era rovinati perché avevano diritto a decidere tutto sui beni altrui ed erano degli sciacalli spietati. Il fariseo, fondamentalmente, non vive un’esistenza ingiusta.
Il problema non è quello che fai o non fai, sebbene le azioni hanno una loro incidenza e una loro gravità; il problema è chi è Dio per te e se tu ti misuri con lui o con altri, con altri.
Questo fa chi si ritiene giusto: ha scelto un metro di confronto troppo comodo. Anch’io, per non sentirmi troppo calvo, potrei misurarmi con le teste pelate; in fondo qualche capello superstite spunta ancora sul mio cuoio. Basta scegliere un riferimento apparentemente peggiore e il piedistallo è creato.
Povero fariseo. Chissà cosa aveva da nascondere per agire così! In fondo il disprezzo è un’arte e allo stesso tempo un’arma necessaria, senza la cui protezione e il cui conforto, come si fa a vivere? Come si può accettare quello che si è o che si è stati senza disprezzare gli altri consolandosi almeno un po’? Chi disprezza è un poveraccio che sta coprendo se stesso in qualche modo, questo dice il Vangelo e questo dice la vita... nel senso che esiste un disgusto degli altri che fa meno insopportabile la nostra miseria.
Quando prendi l’unico vero riferimento con cui misurarsi, lì c’è da sprofondare. Naturalmente è una furbizia saggia che il pubblicano ha colto: ha un sincero desiderio di pagare per le sue colpe e lo dice. Nel testo greco non appare una richiesta di perdono, che in italiano traduciamo malamente con “abbi pietà di me”, ma una voglia di pagare i conti o di saldare i debiti. Come se il pubblicano dicesse a Dio: fammi pagare tutto, voglio uscirne una buona volta.
Amo pensare che in noi albergano le due anime: quella del fariseo e quella del pubblicano e che continuiamo a mettere in campo quella sbagliata davanti al Signore Dio. Si, le decime le avremo pur pagate e anche coi digiuni magari siamo a posto, compresa la coscienza di non aver commesso colpe gravi. E questa è una parte di noi. Ma l’altra?
Ecco, quando cerchi il dialogo con me, apri l’altro registro, dice Dio. Almeno vai da te a me, perchè se ti autoesalti solamente non fai nessuna strada, resti su te stesso ed è un monologo dove io, Dio, non esisto.
Il tema che non vogliamo affrontare
Qui converge il testo della parabola. Quando dice che il peccatore si batteva nel petto e cioè picchiava il colpevole. C’è un tema che non tiriamo fuori e d è quello delle nostre colpe. Ma solo se si parte da lì si parte. Le altre sono false partenze.
Tirarlo fuori per fustigarci? No, per invocare lo sguardo di Dio. E questo è preghiera. Tu davanti a Lui, consapevole dei dislivelli e chiedendo pari pari che Lui faccia qualcosa per te, mentre la deformazione della preghiera è la falsa e coccolante certezza di aver tu fatto qualcosa per Dio. Per cui Lui sarebbe quasi in debito con te.
Noi e la nostra preghiera: o Lo celebriamo o ci celebriamo.
padre Fabio, guanelliano