La sua teologia spirituale è tutta in questa visione di Dio e delle cose divine; il cristiano, tutto il suo essere, anima e corpo, viene coinvolto e chiamato ad inserirsi in questo progetto divino di misericordiosa salvezza; la posizione fondamentale di don Guanella è quella di lasciarsi portare (non quietisticamente, ma con attiva collaborazione) da questa onda di grazia e di affetto paterno. «Prova e vedrai, – dice spesso – fidati di Dio!». Lo afferma per ogni cristiano, perché ritiene che ognuno è chiamato a un certo livello di esperienza di Dio, di contemplazione e godimento; per i suoi religiosi è una costante sollecitazione ad affidarsi all’amore del Padre, ad abbandonarsi fra le braccia della sua provvidenza, disposti a tutto ciò che essa prepara, dispone, sollecita a fare. Don Guanella tien conto della debolezza dell’uomo, insiste con grande rispetto, bontà e comprensione; ma quando trova un cuore disposto a fidarsi totalmente di Dio, allora la sua guida si fa forte, le richieste pressanti, fino alla donazione eroica e fino alla santità più elevata.
La sua spiritualità ha inoltre, si può dire, anche una componente sociale: l’apertura e l’accoglienza dell’altro, del fratello, del povero, soprattutto il più povero. Vi vede seriamente l’immagine di Dio, il figlio di Dio, le membra sofferenti del Cristo Figlio. Nel secolo XIX questa spiritualità fece grandi passi in avanti, sia nella sua formulazione teorica, sia nell’applicazione pratica, con tutte le conseguenze più avanzate.
Fu anche, o forse soprattutto, questo progresso che fece recuperare al diritto dei religiosi il ritardo che abbiamo segnalato. Si diceva che non poteva essere vero religioso, se non colui che realmente viveva solo per Cristo, in clausura o staccato totalmente dal resto del mondo, assiduo al coro, alla preghiera ufficiale della Chiesa sposa di Cristo, alla meditazione e alla contemplazione di lui: solamente così si realizzava la scelta di stare con Cristo, perché solo lui bastava. Aggiungendovi poi la solennità giuridica dei voti, si aveva il vero religioso.
Ma i fondatori di congregazioni dedicate alla salvezza del popolo, dei poveri soprattutto, e don Guanella in particolare, hanno potuto e saputo dimostrare con la vita e con l’insegnamento che la scelta evangelica di Cristo nel povero può e deve portare a una vera ed esclusiva intimità con Cristo, e con lui solo. Il fratello non è allontanamento o evasione; l’uscita dalla clausura per vivere nella piazza, nell’ospedale, sulle vie, nelle case più dimesse ove abita il povero, non è un itinerario in orizzontale; la cura delle malattie e delle indigenze del povero apre una strada diretta a Cristo. In don Guanella tutto ciò è implicito; ma il suo pensiero e la sua convinzione potrebbero validamente essere esplicitati: come adoriamo il legno della Croce per colui che vi è stato appeso, così possiamo vedere nel povero la sofferenza, le piaghe di Cristo e contemplare e adorare nel povero il mistero della passione di Cristo e delle sue piaghe, dei suoi tormenti e della sua morte. Possiamo prostrarci davanti al povero, come i santi, e riconoscere nelle piaghe, nelle sofferenze, nel dolore e nel suo abbandono, il mistero della morte redentrice di Cristo. E quello che si fa al povero, viene fatto a lui. Si può parlare di "mistica del povero", se questi diviene una nuova via del cuore per incontrarsi direttamente con Cristo, raggiungerlo e convivere con lui, un "vieni e vedi" nell’esperienza della partecipazione al suo dolore.
In questo modo don Guanella professava l’unità dell’azione con la contemplazione, e la santità dell’azione. Annunciava anche in questo modo il primato della carità, non a parole o con lo scritto, ma col cuore e la vita. All’interno una scelta senza esitazioni o tradimenti, matura ed equilibrata; all’esterno un servizio umile, discreto, instancabile, illimitato, disponibile in tutto e fino al limite della colpa, ricco di quella libertà di spirito, che è un vero dono del ciclo.
Ma non è la quantità di azione, il numero delle cose fatte che interessa; e nemmeno il risultato più o meno brillante.
Forse può essere anche importante che nella cura del minorato o dell’anziano si arrivi, e anche nei casi più gravi, a qualche risultato; senz’altro è necessario provare. Ma è più importante quello spunto di sorriso che si riesce a cavare da un volto spento, quella lacrima di riconoscenza che scorre sulla mano benefica; quell’apertura alla speranza, all’amore. Forse non si arriverà a nulla di più. Bisogna sempre provare, perché qualcosa sarà sempre possibile ottenere; ma ciò che certamente conta è stabilire un rapporto di amore, anche se poco o nulla capito o corrisposto da chi non sa o non può: come Dio, che ci ha amati senza corrispettivi.
Don Piero Pellegrini, guanelliano