VANGELO DELLA DOMENICA
3ª Domenica di Avvento – anno C
16 Dicembre 2012
Gaudete e…la storia dei sandali
Gaudete in Domino. Iniziava così l’antifona della Messa in latino per la Terza Domenica di Avvento ed è tuttora la stessa, riprendendo le prime parole della seconda lettura di oggi da san Paolo ai cristiani di Filippi. Gaudete perché il Signore è vicino.
Ma il cuore dell’annuncio domenicale sta sempre nel Vangelo e quindi è lì che dobbiamo mettere a fuoco questa gioia proclamata. Sì, l’ultimo versetto di oggi dice che Giovanni il Battista “portava la bella notizia al popolo” con varie esortazioni. Ma quale sarebbe questa bella notizia? La pula che si disperde o la paglia che brucia?
C’è la storia dei sandali che però va illustrata, perché fa parte di un rituale antico, non troppo conosciuto ai più e abitualmente spiegato con la solita melensa ragione della grande umiltà di Giovanni il Battista. Si dice che lo scioglimento dei legacci era da schiavi, che qualche maestro lo permetteva ai suoi discepoli invece di farsi pagare e che Giovanni non si considera degno ‘neppure’ di quella schiavitù e…storie simili.
Nel popolo d’Israele “sciogliere il legaccio dei sandali” alludeva a un rito della cosiddetta legge del Levirato, che apparteneva alla vita tribale degli Ebrei a proposito del diritto matrimoniale ed era diventata un proverbio. Allora i matrimoni avvenivano solo nell’ambito di famiglie già imparentate e, come per i campi, c’erano dei diritti di ‘prelazione’ anche per le donne: non si poteva sposare una donna se c’era qualcun altro che ne aveva più diritto, una specie di ‘precedenza’. Ora capitava spesso che chi aveva il diritto non aveva voglia o perché la moglie era brutta o perché la dote era scarsa o per mille altre ragioni; allora costui, titolare della precedenza, poteva rinunciare al suo diritto, ma doveva farlo in pubblico, sulla piazza, davanti alla Porta della città. Il subentrante gli scioglieva simbolicamente i lacci del sandalo e vi infilava il suo piede, come nuovo avente diritto. Il rito segnava il passaggio di proprietà.
L’espressione di Giovanni, così inquadrata, è di una bellezza imparagonabile a qualunque predica sull’umiltà. Dal momento che la massa di gente che accorreva a Giovanni e si faceva battezzare stava vivendo un momento di euforia collettiva che sapeva di liberazione, tutti avevano individuato nel Battista il Messia di cui parlavano le Scritture ed è qui che Giovanni li blocca: non mi tocca, questa ‘sposa’ è di un altro, io non posso subentrare, neppure se si facesse il rito dei lacci dei sandali da sciogliere. Arriva lo Sposo vero e lui non lo cederà il suo diritto di precedenza.
Nessuno può prendere il posto di Cristo. Nessuno ci amerà mai come ci ha amati Cristo, questo è il punto. Tutti, sempre, potranno essere solo secondi nel nostro cuore; lo sposo è Lui e la sua esclusiva non la regala. Molti verranno che vogliono il posto di Cristo nella nostra vita... Che annuncio incredibile!
Incredibile e liberante, poiché a volte noi nutriamo verso chi ci ama delle pretese assurde, perché occupino tutta la nostra vita senza lasciare spazi vuoti. Mentre ogni relazione, anche la più riuscita lascia una solitudine che è naturale e necessaria: nessuno può riempire il nostro cuore, solo Cristo. C’è una solitudine che lasciano le relazioni belle e non è il segno della pochezza, ma della nostra grandezza; siamo congegnati in modo che solo Cristo possa ‘sposarci’ e riempirci, senza lasciare vuoti. Nessuno può subentrargli.
Pula, paglia, grano
Tanta attesa per lo Sposo, che poi arriva. Arriva e che fa? Prende il ventilabro o la pala, come dicono infelicemente le nuove traduzioni, e compie quelle operazioni che i contadini di allora conoscevano bene: pulire il grano, liberandolo prima dalla pula e poi dalla paglia. La pula che se la porti il vento e la paglia che la bruci il fuoco.
Per questo viene il Signore Gesù; c’è pula e c’è paglia in noi che nascondono il grano: bisogna che si arrivi al ‘grano vero’, per questo viene lo Sposo. Vuole unirci a Lui per sempre, ma c’è da fare pulizia e prepararsi. Torna ancora il tema caro alla teologia cristiana della ‘grazia’ che non è data a buon mercato; nessuno ti salva contro tua voglia e senza che tu faccia la tua parte.
Ci sono scorie che coprono il grano…e che vanno bruciate. Lo capiscono le folle variegate che vanno da Giovanni e di fatto chiedono il Battesimo; ma il Battista li ha appena messi in guardia: “Razza di vipere!”, ma che credete? Che basti un’abluzione, qualche rito? Bisogna cambiare vita ed esibire frutti di conversione vera.
Di qui era nata la domanda: “Che dobbiamo fare?”. E la risposta di Giovanni che li invita a fare il fattibile; in ogni condizione di vita, anche se si è pubblicani, odiosi esattori delle tasse, o soldati, in qualunque condizione…c’è una misericordia possibile: si può essere più umani. Ma un esattore che non imbroglia e non ruba che esattore è? Un soldato che non fa violenza o non estorce che soldato è? Appunto: è uno che comincia a fare il primo passo, ad esibire la prova delle sua voglia di conversione per andare incontro allo Sposo.
Verrà lo sposo. E chiederà ben altro. Chiederà di perdonare le offese e di amare il nemico, di essere felici nella persecuzione e di affrontare con serenità gli oltraggi; chiederà di dare la vita, per amore. Chiederà ben altro. Giovanni non è lo Sposo e può solo chiedere questo ‘primo passo’.
Imparassimo questa pedagogia del Vangelo! Prima Giovanni, poi Cristo. Prima chiedere il fattibile, poi il difficile, alla fine tutto. Ma alla fine; non si può chiedere tutto all’inizio. Cioè la conversione e il cammino di fede hanno delle loro tappe: ad ogni tappa risuona la domanda “che cosa dobbiamo fare?”.
All’inizio questo c’è da fare: quello che è alla tua portata, all’interno delle condizioni che hai e del mestiere che fai, lì dove sei. Senza lasciare, senza partire, senza grossi balzi in avanti, senza scelte radicali: quelle le chiederà poi il Signore Gesù. Rendere umana la tua vita facendo il bene possibile ed evitando il male possibile.
padre Fabio, guanelliano