PADRE EZIO CANZI
Nace a Sovico, in Brianza, il 13 Maggio 1947, secondogenito di Alessandro Canzi e Giulia Fontana. Entra tra i Guanelliani a Cassago Brianza, in adolescenza.
Professa i voti tra i Servi della Carità il 24 Settembre 1970 realizzando i suoi primi studi tra Anzano del Parco e Barza d’Ispra. Prima esperienza di missione: il seminario guanelliano di Aguilar de Campoo, in Spagna, sulla montagna palentina, come educatore.
Termina i suoi studi a Roma ed è consacrato sacerdote da mons. Teresio Ferraroni a Como, nel Santuario del Sacro Cuore, nostra Casa Madre, il 3 Settembre 1977, alcuni mesi prima della data prevista per i suoi compagni, perchè doveva aprirsi una nuova Casa guanelliana per i disabili a Palencia in Spagna e i superiori lo mandano tra i pioneri.
Ci rimane quattordici anni, la migliore delle sue scuole di vita.
Nel 1991 lo inviano in Nigeria. Anche lì bisogna aprire la prima Casa guanelliana di Africa.
Resta appena tre anni e lo richiamano, sfatto dalle fatiche africane, per coordinare un centro di disabili a Tirano, in Valtellina e per collaborare nel famoso Santuario mariano.
A Febbraio 1996 l’obbedienza gli chiede di raggiungere la terra di Guatemala, in America: ancora una volta si tratta di aprire la prima casa guanelliana. Vi resta solo pochi mesi, ma rimane affascinato da quel mondo e soprattutto da quel clima, lui che era un freddoloso. Spesso diceva: “Se me lo permettessero, vorrei tornare in Guatemala, gente fantastica e clima da Paradiso, un’eterna primavera”.
Dovette fare subito le valigie: destinazione Colombia. I tre guanelliani presenti in quella casa avevano subito vari attacchi e rapine da certi delinquenti che volevano impadronirsi della nostra terra invidiabile, in cima alla collina, posto strategico per l’edilizia.
Attaccavano per scoraggiare, perchè si lasciasse il campo. E ci sarebbero riusciti perchè i tre padri presenti in quell’opera fuggirono spaventati dagli spari e dalle minacce ripetute.
Fu quando chiesero a Ezio e a un altro guanelliano di farsi carico di quell’opera e lui partì, tra pallottole e assalti. Ma presto dovette tornare a Sovico: la sua mamma Giulia era grave e aveva bisogno. Allora si improvvisò medico, infermiere, cuoco; era la sua piccola moneta in restituzione di un grande amore.
Intanto i superiori gli chiesero di continuare a coordinare il lavoro tra i disabili di due opere, Cassago Brianza prima e poi Lora, nella famosa ‘Casa di Gino’ che dovette rimettere a nuovo nelle strutture e nell’impostazione.
L’anno 2009 fu un tornado di problemi di salute: cuore, reni, cancro, circolazione...
Ne rimase sprofondato e bisognoso di cure. Fu inviato a Nuova Olonio a riposo.
Seppe che i Guanelliani dovevano aprire una fondazione nuova sul Cammino di Santiago e chiamò il confratello che ne aveva ricevuto l’incarico, dicendogli: “Portami con te, non ti darò fastidio, ti aiuterò per quello che posso, ma tirami fuori da questo riposo forzato”.
Ed è stato un pilastro della Fondazione.
Quando si scriverà la storia di quell’Opera non si potrà omettere la bella pagina scritta da questo prete partito da Sovico coi calzoni corti.
I PADRI GUANELLIANI
Per lasciare ricordi personali di Ezio e chiedere sue memorie, quando si comporranno
scrivere a:
CHIARAMENTE e NUOVAMENTE
Una delle cose che la gente apprezzava molto di Ezio erano le sue omelie.
Brevi, essenziali, dirette, azzeccate…a volte piccanti.
Lo prendevamo in giro perchè ripeteva sempre due avverbi nei suoi discorsi: erano come due parole chiave e ogni due frasi te le buttava là: chiaramente y nuovamente, forse per via della lingua que va sempre dove il dente duole.
Erano i suoi punti sensibili. Chiarezza e novità, e lui ne era un esempio.
Era chiaro, senza doppiezze e ambiguità nell’essere e nel parlare. Ed era nuovo, perchè, nonostante l’età arrivava sempre come qualcosa di fresco, giovanile e attuale.
Il segreto stava nell’aver passato quasi tutta la sua traettoria con i diversamente abili che don Guanella chiamava “buoni figli” ed Ezio si considerava un fortunato perchè diceva di aver imparato molto da loro. Un apprendistato lento che gli aveva trasformato la forma di pensare e di parlare: “I ragazzi mi hanno insegnato a dire sempre le cose essenziali, quelle irrinunciabili, talmente elementari che potrebbero passare inosservate”, disse nella Messa dei suoi cinquant’anni di vita guanelliana, qualche mese fa.
Stava bene con gente di ogni età e di ogni tipo, ma con i disabili si sentiva come un pesce nell’acqua, dicono gli spagnoli; faceva scherzi e li stuzzicava per vedere come reagivano e si stupiva per il meraviglioso mondo emotivo dei suoi ragazzi, diretti, immediati, senza maschere. Soprattutto osservatori, cosa per cui anche lui divenne una persona sempre più sensibilie e attenta, che si muoveva più per intuizione che per analisi.
Adesso Ezio si trova nel Regno della chiarezza e della novità, con Cristo Luce e Vita, sommamente amato.
Era un uomo di mille patrie: la prima Sovico, evidentemente, e la seconda fu la Spagna.
In Spagna fu mandato appena seminarista, per il tirocinio, e da allora non lasciò mai quella terra, anche se la Provvidenza gli chiedeva un cambio di sede e di missione.
Cominciò in Spagna, in Spagna tornava quasi ogni anno, in Spagna volle concludere la sua parabola di servizio. Aguilar de Campoo coi ragazzi del seminario, a Palencia coi disabili, a Santiago con la vita parrocchiale e i pellegrini. La Spagna fu la sua terra adottiva.
Me lo immagino nel suo discorso finale, se l’avesse tenuto: “Mia madre, Giulia, mi diede la vita e mi spiegò come funziona, dato che mio padre morì così giovane che non ebbi la fortuna di goderlo molto. La Spagna mi ha insegnato come restituirla la vita”.
Certo a Sovico tornava sempre felice. La gente lo sosteneva in tutte le sue iniziative e poi c’era don Carlo, uno dei suoi modelli di vita sacerdotale. Ne era affascinato.
Ci raccontava spesso, divertito, della fortuna nelle sue avventure missionarie: America Latina, Africa, Spagna e anche Italia. Si sentiva privilegiato per aver annunciato il vangelo in tante lingue e per aver abbracciato razze tanto diverse, senza mai perdere il filo. Lui era rimasto sempre quel giovanotto spensierato e generoso che un giorno era uscito da Sovico per entrare tra i Guanelliani a Cassago col desiderio di dare tutto al Signore, senza sapere dove e come.
Si mantenne sempre aperto e libero, da amici e da nemici, da condizionamenti e mode.
Un uomo schietto e franco, anche coi suoi superiori, fin troppo disinvolto; nei nostri giri è famoso il suo alzare il bicchiere, magari dopo una buona bevuta, e gridare spregiudicato: “Viva i superiori!”. All’Arcivescovo di Santiago aveva chiesto sfacciatamente: “Mi nomini monsignore con la fascia rossa! Che le costa? Così ai miei superiori gli prende un colpo!”
Conservò sempre il suo profilo di persona allegra: gli piacevano le feste, le compagnie, i balli, le gite, gli scherzi. Perchè non aveva problemi di relazione, anzi è dove dava il meglio di sè, senza complicazioni. Sapeva stare nelle contraddizioni e nella precarietà, affrontando pericoli e umiliazioni, incassando anche qualche colpo basso, lo sostenevano la preghiera spontanea e una visione divertita delle vicende umane.
Quando arrivammo a Santiago era un pomeriggio fresco di Autunno, nel 2010, Anno Santo Compostellano. Il giorno successivo ci presentarono alle parrocchie e io vedevo i volti trasognati delle persone, tra i banchi, perchè Ezio allora camminava con due bastoni ed era proprio sfasciato. Alcuni pensarono che non sarebbe durata a lungo quella sua nuova stagione spagnola e anche molti dei guanelliani erano perplessi a quella partenza.
Ma la novità del mondo gallego, le abitudini nuove, un paesaggio magnifico, alcune sfide da vincere, una certa sfiducia iniziale della gente, le avventure che gli confessavano i pellegrini, le visite agli ammalati di quella terra abbandonata dai sacerdoti...tutto aiutò.
Ed Ezio resuscitò. In due settimane lasciò i bastoni, il primo e poi il secondo. Riprese a guidare e bisognava frenarlo, era tornato l’Ezio di sempre, ardito, lanciato, deciso.
Tutti lo amarono a prima vista, sopresi di trovare tanta forza in un corpo debole.
Un regalo nel regalo, in quest’ultima fase, è stata la presenza di diversi sacerdoti giovani dell’India che sono arrivati a Santiago per lavorare con noi. Ci scherzava, li stimolava, ne correggeva il tiro. Un nonno coi nipoti, uno spasso, ma una vera scuola.
A loro, soprattutto, ha passato la fiaccola, ripetendogli mille volte che “il bello deve ancora venire!”, come segreto per una vita davvero nelle mani della Provvidenza.
Prima di addormentarsi recitava sempre una preghiera che gli aveva insegnato la nonna, in dialetto bergamasco: “Signore, dove sto mi ci hai messo tu, non te lo scordare”.
E ci ha lasciati il Mercoledì delle Ceneri del 2021, ancora Anno Santo Compostellano. Bella parentesi di misericordia, da Anno Santo ad Anno Santo.
Mi resta la sua idea di Dio: pazienza infinita, col Suo mestiere proprio di accogliere, comprendere, perdonare. Tutto e sempre.
Inizio a gustare il privilegio che mi ha concesso il Signore nel poter condividere quest’ultima traversata del suo servo Ezio, con la gratitudine nell’animo fissa su un punto:
con Ezio non ho mai dovuto guardarmi le spalle, cosa che non ha prezzo.
Solo l’amore rende sinceri e leali. E credo che con me lo possano dire in tanti.
Ricordati di noi, padre Ezio.
“Non dare riposo a Dio”, como dice il profeta Isaia, raccontagli di noi come sai fare tu, si divertiranno i cherubini. Te ne vai, ma non ci sentiamo scoperti: noi qui lavoreremo e tu lá aggiusterai i conti col Signore. Che potremmo chiedere di più?
padre Fabio, guanelliano